Benvenuti su Management dello Stress
Siamo qui per aiutarti a comprendere e gestire lo stress nella tua vita. Attraverso articoli informativi, consigli pratici e risorse utili, ti guideremo verso un benessere mentale e fisico migliore.
Uno dei professionisti che già da ora è disponibile per eventuali quesiti, è Carlo Pruneti, Docente di psicologia clinica e psicopatologia generale all'Università di Parma
Già Ippocrate di Cos, nel 500 a.C. circa, parlava di non dimenticare mai del fondamentale rapporto ed interconnessione tra mente e corpo



https://www.gazzettadiparma.it/salute/2023/07/11/news/il-laboratorio-che-misura-lo-stress-e-che-insegna-come-rilassarsi-719827/
Il laboratorio che misura lo stress e che insegna come rilassarsi? E' a Parma
La febbre
La maggior parte dei genitori si preoccupa quando i loro figli hanno la febbre. Si precipitano spesso a prendere in farmacia farmaci come aspirina, paracetamolo o addirittura antibiotici. Ma è davvero questo il comportamento migliore? Dobbiamo sapere che la febbre è una delle risposte dell’organismo per affrontare una noxa, un attacco di qualche cosa di nocivo al nostro organismo una delle principali risposte di attivazione del sistema immunitario in modo che possa combattere, ad esempio, un'infezione. Cosa fare quindi? Il miglior invito che un sanitario può offrire è, prima di tutto, vigilare con attenzione.
Questo non significa non cercare assistenza medica, solo posporre interventi a volte impropri. Consultare un medico o un pediatra è doveroso ma, nella stragrande maggioranza dei casi si può anche aspettare ore o un paio di giorni se la febbre non sale subito oltre 38,5. Vigilare, in questi casi, significa monitorare attentamente in modo che la febbre non diventi troppo alta e comunque attendere a prendere medicinali per abbassarla o sopprimerla
Sebbene la febbre possa essere fastidiosa, nella maggior parte dei casi non è qualcosa di cui aver paura. Invece di sopprimerla, in moltissimi casi, in età pediatrica e non, è utile lasciare che la febbre faccia il suo corso, poiché la febbre, aumentando la temperatura allo scopo di distruggere virus o batteri che in genere sono molto sensibili alle temperature elevate, può migliorare il decorso della malattia. I risultati della ricerca clinica testimoniano che gli individui che, durante una malattia causata da infezione batterica, sono stati qualche giorno con la febbre alta ma non altissima (38° circa) avevano avuto tassi di sopravvivenza più elevati dopo l'infezione (Repasky et al., 2013). Remissioni spontanee del cancro, un evento complessivamente più raro, sono state osservate ripetutamente in relazione a malattie infettive febbrili, in particolare quelle di origine batterica (Kienle, 2012).
Sebbene trattare la febbre con i farmaci possa fare stare più tranquille le madri ed i genitori più in generale, l’assumere farmaci in abbondanza, anche gli antipiretici relativamente più innocui come il Paracetamolo, può essere dannoso (Anne e coll., 2005; Ryder, 2001; Sheen e coll., 2002; Bauer e coll., 2021).
Il dott. Schulman e i colleghi della Leonard M. Miller School of Medicine dell'Università di Miami hanno dimostrato in uno studio randomizzato controllato che, tra pazienti simili ricoverati in terapia intensiva, il rischio di morte era sette volte più alto per coloro che avevano ricevuto farmaci antipiretici rispetto a coloro che non li avevano ricevuti (Schulman et al., 2005). (Schulman et al., 2005).
In rari casi, poi, alcuni farmaci antipiretici possono portare a complicazioni. Ad esempio, l'aspirina può causare irritazione allo stomaco e ulcere, oltre a essere un cofattore nella sindrome di Reye (Temple, 1981; Schrör 2007). Mentre il paracetamolo spesso somministrato ai bambini piccoli, sembra favorire il rischio di rinite allergica e asma entro i sei anni oltre che, come già accennato, risultare tossico ad alte dosi (Caballero, et al., 2015; McBride, 2011). McBride in particolare sostiene che sembra esserci una correlazione tra l'uso di paracetamolo e l'asma in tutti i gruppi esaminati di età compresa tra i 3 ed i 12 anni ed in diversi luoghi. Questa correlazione è valida anche per le madri che hanno assunto paracetamolo durante la gravidanza, poiché i loro figli avranno un rischio maggiore di asma che in genere si manifesta entro i sei anni.
Come sottolineano Bauer e colleghi (Bauer et al., 2021): "Il paracetamolo (N-acetil-p-amminofenolo o APAP, noto anche come acetaminofene) è il principio attivo di oltre 600 farmaci utilizzati per alleviare il dolore da lieve a moderato e ridurre la febbre.
La ricerca però suggerisce che l'esposizione prenatale all'APAP potrebbe alterare lo sviluppo fetale, il che potrebbe aumentare i rischi di alcuni disturbi neuro-evolutivi, riproduttivi e urogenitali. Le donne incinte devono essere quindi avvisate all'inizio della gravidanza di non abusare dell'APAP a meno che il suo uso non sia indicato dal medico.
A questo punto è anche lecito chiedersi se la soppressione attiva della febbre durante l'infanzia sia in grado di condizionare il sistema immunitario a non avviare una risposta di febbre quando necessario attraverso un processo psicologico di condizionamento classico: ai primi accenni di febbre si cerca di alleviarla o sopprimerla per cui si “abituerà” l’organismo a presentare sempre meno questo tipo di risposta fisiologica. riducendo così la competenza complessiva del sistema immunitario. Questo potrebbe essere uno dei fattori che possono contribuire all'aumento dei tassi di allergie, disturbi immunitari e autoimmuni e, perché no, all’insorgenza precoce di alcuni tumori (Gorter & Peper, 2011). In altri termini, se tutte le volte che un soggetto, e sin dalla tenera età, ha la febbre e sono stati usati farmaci per ridurla, nel tempo la risposta della febbre potrebbe essere inibita proprio attraverso una sorta di condizionamento.
Cosa fare perciò quando si ha la febbre?
- La già citata attesa vigile. Ciò significa monitorare attentamente la persona e usare farmaci per ridurre la febbre solo dopo consulto medico e quindi solo se necessario. Ricordare sempre che, nella maggior parte dei casi, la febbre non è la malattia ma è proprio la risposta del corpo per combattere la malattia e poter poi riacquistare la salute.
- Quando si ha la febbre, si suda e si ha bisogno di più liquidi. Quindi, aumentare l'assunzione di liquidi. Quasi tutte le tradizioni culturali in giro per il mondo raccomandano di bere semplicemente acqua oppure acqua calda con succo di limone, latte caldo e miele, brodo di pollo, ecc.
- Attenzione ai cambiamenti di temperatura. La persona con la febbre, anche se non elevata, può sperimentare sensazioni di caldo e freddo durante la stessa giornata ed anche da un’ora all’altra, lasciare perciò che la persona si copra o meno semmai, nel caso di bambini, verificando che i piedi non siano freddi, in questo caso è bene coprire con le coperte, altrimenti lasciare stare. Ricordare, infine, che i bambini molto piccoli non vanno mai coperti troppo, non dovrebbero sudare perché troppo coperti, perché in età precoce la termoregolazione non è ancora adeguatamente sviluppata
- Ovvero aiutare il malato a rileggere e riconsiderare l'esperienza che sta vivendo, per quanto noiosa e a volte dolorosa, come un'esperienza di guarigione riformulando il proprio linguaggio interno in modo positivo, dicendosi o dicendo ad esempio, devo essere contento che il mio corpo stia rispondendo a questo problema e lo aiuterò a combattere questo che mi è accaduto e ho fiducia che il mio corpo stia combattendo bene la malattia o ancor meglio, per la guarigione.

Carlo Pruneti
Viaggiare come terapia
Viaggiare come terapia, non solo per svago o per riposare. Sono sempre di più gli psicoterapeuti che consigliano ai loro pazienti, un viaggio. Per fermare una routine diventata stressante, per guardare le cose (e i propri problemi) sotto una nuova prospettiva, per aprirsi ad esperienze ed amicizie. Perché, come già lo scrittore americano John Steinbeck sosteneva, «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone».
La consuetudine è tale che è nata anche la figura del «travel therapist», che affianca lo psicoterapeuta nel suggerire mete e organizzare gli itinerari più adatti. Ne parliamo con Carlo Pruneti, docente di psicologia clinica e psicopatologia generale dell'Università di Parma, responsabile del Laboratorio di psicologia clinica, psicofisiologia clinica e neuropsicologia clinica del Dipartimento di medicina e chirurgia.
Quando un viaggio acquista un valore terapeutico?
Tutte le volte che è pensato, adeguatamente programmato e gioendo nella prospettiva di farlo, semmai in compagnia e, se è inserito all'interno di un percorso psicoterapeutico, con suggerimenti che vanno al di la del buonsenso. È infatti importante che lo psicoterapeuta valuti l'aspetto clinico del paziente e dia i giusti suggerimenti, ad esempio, se un paziente è in un momento di forte stress, non ha alcun senso intraprendere un viaggio lungo e faticoso. Il viaggio, infatti, in questi casi potrebbe essere addirittura pericoloso o fatale; non è infrequente, ad esempio, una sorta di breakdown come l'infarto proprio durante un periodo di vacanza immediatamente dopo un periodo di stress cronico.
Quindi la vacanza «terapeutica» va scelta con attenzione?
Va ponderata e studiata. La preparazione di un viaggio è meravigliosa e può essere anche quella una fase terapeutica. Darsi del tempo, sognare, progettare. Il terapeuta che ha inquadrato lo stile di vita e la personalità del paziente e che, semmai con strumenti di tipo psicofisiologico, ne ha misurato lo stress, può ad esempio sconsigliare un viaggio in un certo momento e caldeggiarlo invece in un altro.
Qual è la meta ideale di un viaggio che aiuti la psiche? Non esiste, è diversa per ciascuno. L'importante è lo spirito con il quale si affronta il viaggio: non con l'intento di “fuggire” dai problemi, che poi si ripresenteranno più pressanti al ritorno, perché “ovunque si vada, alla fine si ritroverà sempre se stessi”, piuttosto di cercare un cambiamento positivo, una trasformazione in senso evolutivo del sé. In generale, sconsiglio viaggi frettolosi, di pochi giorni verso mete lontane per quanto ricche di fascino o destinazioni modaiole. Ho avuto una paziente, con un impiego modesto che risparmiava tutto l'anno per permettersi una settimana in una località di moda a spiare i vip: ne gioiva nella preparazione ma ne tornava insoddisfatta e frustrata.
Quindi la gita fuori porta può essere utile quanto la vacanza esotica?
La scelta della destinazione è in funzione di chi fa il viaggio e dipende dalle sue condizioni fisiche e psicologiche. Ho invitato ad esempio una paziente che non riusciva a superare la perdita del consorte, e recalcitrante ad intraprendere viaggi, ad andare a recuperare la barca del marito ormeggiata da anni in un porto lontano. Fare quel passo è stato importante per superare un’impasse doloroso. Con quale spirito andrebbe affrontato un viaggio terapeutico? Non con l'ansia di arrivare alla meta, magari per documentarla e sbandierarla sui social, ma con la voglia di godersi il viaggio, viversi le esperienze e il tragitto. Il famosissimo libro di Robert Pirsig «Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta» insegna proprio questo: “L'unico Zen che trovi in cima alle montagne è lo Zen che porti lassù” e lo Zen, in questi casi, lo fa la qualità di un viaggio.
C'è anche l'altra faccia della medaglia: la sindrome di Wanderlust, ossia l'ossessione di viaggiare continuamente. È una sindrome che in qualche modo ricorda il “sensation seeker”, oggi purtroppo assai diffusa, che potrebbe essere riassunta nel non essere soddisfatto se non in giro per il mondo. La “sensation seeking” nell’accezione di Zuckerman (1994) è “un tratto di personalità definito dalla ricerca di comportamenti sempre nuovi, semmai a rischio, sensazioni ed esperienze varie e intense e dalla disponibilità a correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari, per il piacere di tali situazioni”. Queste persone spesso ritengono perdite di tempo anche il soffermarsi per godere di un paesaggio o di un momento di rilassamento. In questi casi è necessario che qualcuno le aiuti a rivolgersi ad uno psicoterapeuta per cercare almeno di lenire questa prorompente tendenza. L’approccio più efficace è quello della psicoterapia cognitivo comportamentale e in particolare alcune tecniche come la desensibilizzazione sistematica, lo stress inoculation training, il biofeedback. Lo psicologo esperto in travel therapy potrà in questi casi fare ben poco per loro.
Rilassamento sì, rilassamento no
Ho avuto l’onore di avere conosciuto uno dei più influenti esperti del rilassamento muscolare progressivo profondo, ideato a suo tempo dal Dr Jacobson. Un suo allievo, Frank J. Mc Guigan, che tra l’altro è stato presidente APA negli USA e della World Association of Stress Managenment, è stato uno dei più autorevoli autori di modifiche dell’originale metodica ed io ho avuto l’onore di averlo come maestro, per quanto occasionalmente e per brevi periodi tempo, durante le mie visite all’allora US International University di San Diego. Le visite al suo allora vasto laboratorio di psicofisiologia ed i colloqui avuti con lui, che mi ha omaggiato al tempo anche di uno dei suoi ultimi testi: “Calm Down a Guide for Stress and Tension control” è davvero stato davvero illuminante e arricchente professionalmente.
Una delle frasi che mi è stata più volte ripetuta dal Prof. Mc Guigan è stata: “È necessario andare dal corpo e dai muscoli al cervello e dal cervello ai muscoli, la cosa più importante è aiutare le persone a usare bene la propriocezione”, ovvero i propri sensi verso la mente e esattamente l’opposto, la mente verso i sensi, certamente una delle basi delle varie versioni del rilassamento in questo caso, quello progressivo alla Jacobson, una delle metodiche universalmente riconosciute in grado di ridurre lo stress.
Si parla ormai diffusamente del significato di questo termine come di uno dei problemi che ormai caratterizza la salute psicofisica nei Paesi occidentali, quasi sempre per indicare molto spesso vari eventi e fenomeni non sempre con la dovuta precisione. Questa parola viene infatti ampiamente utilizzata sia per connotare un evento (stressante), percepito come pericoloso o traumatico, che per le risposte fisiologiche e psicologiche che a questo evento o situazione conseguono. Si parla poi altrettanto confusamente, a volte, del rilassamento, come se vi fosse una qualche possibilità taumaturgica di queste metodiche sino alla considerazione, errata, che: “Rilassamento equivalga matematicamente a no-stress”. Purtroppo non è così semplice e, come molte altre attività, come quella fisica, la dieta sino ai farmaci, gli aspetti individuali, soggettivi giocano un ruolo fondamentale. In altri termini, anche il rilassamento di cui si parla in questo testo e ispirato alle tecniche che per primo descrisse Jacobson molti tempo fa, “è per molti ma non per tutti”.
Mindfulness e cenni delle terapie CBT di ultima generazione, l’ACT
La mindfulness è una forma di meditazione che focalizza l'attenzione sul momento presente coltivando un atteggiamento non giudicante nei confronti di se stessi e del mondo esterno.
La meditazione è una metodica di antichissima origine (vedi padre Serafino). La meditazione aiuta a sviluppare una pratica regolare di consapevolezza, riportando la mente su un preciso oggetto di meditazione ogni volta che i pensieri affiorano che può essere il respiro, un mantra, un chakra o una visualizzazione a seconda della tecnica di meditazione che decidiamo di praticare. Nella meditazione c’è sempre questo “punto focale” al quale fare riferimento se i pensieri stanno distraendo la persona. Nella meditazione esicastica, di impronta religiosa, ad esempio, si utilizzavano brevi preghiere che venivano ritmicamente ripetute sottovoce come: «Kyrie eleison».
La pratica della mindfulness, si basa sulla conoscenza profonda delle varie componenti il proprio sé, non a caso, la parola inglese "mindfulness" significa proprio "consapevolezza".
La pratica della mindfulness può, pertanto, essere considerata come una sorta di processo che - attraverso la messa in pratica di particolari tecniche di meditazione - porta l'individuo ad essere consapevole di sé stesso, dei propri pensieri, delle proprie sensazioni e della realtà, intesa come qui e ora, che lo circonda.
A differenza della semplice meditazione, la mindfulness, in genere, non si avvale di un preciso “oggetto” per mantenere l’attenzione qui ed ora. Si concentra invece su ciò che le persone possono notare dentro e fuori di sé partendo dalla respirazione e che sta accadendo in quel preciso momento.
Storicamente, il concetto attuale di mindfulness deriva dagli insegnamenti del buddhismo theravada (vipassanā), dello zen (zazen), e dalle pratiche di meditazione yoga.
Nel mondo occidentale venne diffuso per la prima volta negli Stati Uniti degli anni ’70 del secolo scorso, da un biologo del Massachusetts, Jon Kabat-Zinn (1994) che la descrisse come: “prestare attenzione, ma in un modo molto particolare ovvero:
- con intenzione,
- al momento presente,
- in modo non giudicante”.
È certamente un metodo che tende a far sì che la persona acquisisca e affini le modalità per raggiungere l’obiettivo di una sempre più piena presenza all’esperienza del momento, al qui e ora, e queste metodiche in parte “occidentalizzate” sono poi state in qualche modo ulteriormente trasformate e in parte assimilate e utilizzate semmai all’interno di contesti e metodiche terapeutiche autonome anche in alcuni approcci terapeutici medici, psicologici e psicoterapeutici contemporanei.
Questa particolare metodica di distensione e meditazione che ha quindi lo scopo di fare prestare particolare attenzione, momento per momento, nell'hic et nunc («qui ed ora»), in modo intenzionale e non giudicante, al fine di risolvere (o prevenire) la sofferenza interiore e raggiungere un'accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza che comprende: sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni. A sua volta, riuscire a migliorare questa modalità di prestare attenzione a se stessi permette di cogliere, con maggiore prontezza, il sorgere di pensieri negativi che contribuiscono al malessere emotivo. La padronanza dei propri contenuti mentali e degli stili abituali di pensiero (capacità di automonitoraggio e metacognizione) permette maggiori possibilità di esplorazione, espressione e cambiamento di tali contenuti.
Uno dei concetti strettamente connessi con le metodiche della mindfulness è che purtroppo certe situazioni negative della vita non è in alcun modo possibile evitarle per cui può essere decisamente pericoloso, non salutare o addirittura fatale seguire quegli schemi di comportamento assai diffusi nelle civiltà occidentali improntante all’ipercompensazione, come usare alcol droghe o farmaci per “non pensare”.
La prospettiva della consapevolezza offerta dalla mindfulness offre una possibilità a prima vista opposta e alternativa: entrare in relazione con il disagio e la sofferenza, non rifuggirli. Imparare a rivolgere coscientemente attenzione anche a quello che non piace, che non si desidera perché fa soffrire è sicuramente un procedimento che va “controcorrente” sia rispetto ai condizionamenti sociali che, in parte a quelli fisiologici perché, perché la tendenza automatica, quasi istintiva sarebbe quella di allontanare quei pensieri che in alcuni casi possono quasi opprimere il senso stesso della vita. L’esercizio con la mindfulness farà però in modo di comprendere più a fondo che i fatti restano tali per quanto negativi possono esse stati e il pensiero attuale è altrettanto tale ovvero una produzione della nostra mente e, come tale, una volte che ce ne si è appropriati, possiamo anche gestirlo al meglio per quel dato momento ovvero ora, subito, in questi istanti essere e quindi di essere meno condizionati, meno oppressi anche dalle condizioni che portano disagio e sofferenza.
Il concetto alla base delle moderne metodiche che fanno capo alla mindfulness è che gli individui possono eliminare almeno parte della loro sofferenza, acquisendo la corretta visione della realtà nel momento presente (qui e ora) ed imparando ad avere gradualmente la giusta consapevolezza di sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni. In particolare, pensieri, emozioni e ricordi negativi, vedendoli per quello che sono realmente, ossia prodotti della propria mente che, in quanto tali, possono essere controllati.
In psicoterapia, la mindfulness viene spesso impiegata come parte dalle metodologie che fanno capo ai metodi di cambiamento psicologico improntati a modalità intuitive e di maggiore conoscenza di sé come base per giungere alla risoluzione dei problemi e sofferenze personali. In altri termini, prima di promuovere la messa in discussione delle convinzioni erronee o irrazionali che generano la sofferenza, il terapeuta agisce aiutando la persona a cambiare la relazione con se stesso, con i propri contenuti mentali. Gran parte della sofferenza individuale in psicopatologia dipende infatti dall'identificazione della persona coi prodotti della propria mente, i pensieri come se vi fossero convinzioni del tipo: "io sono i miei pensieri", "quello che penso è vero". In questi approcci psicoterapeutici, il primo passo verso il cambiamento avviene grazie ad un allontanamento da questa sorta di bias cognitivo per cui i prodotti della propria coscienza, gradualmente divengono tali e vi è una sorta di trasformazione in: "io ho dei pensieri", "i pensieri sono ipotesi", posso pensare tutto e il contrario di tutto perché il pensiero è infinito” “io non sono i miei pensieri e non tutti i miei pensieri rappresentano le parti più importanti di me”.
Tale cambiamento genera la capacità flessibile di operare, quando necessario, un distacco dai contenuti mentali, che consente di osservarli con maggiore chiarezza. Questo distacco (detached mindfulness) diminuisce la frequenza di attivazione di quella sorta di reattività automatica che conduce ogni essere umano a profondere rapidi sforzi per evitare, rifuggire o allontanare anche dalla propria mente la sofferenza. Certo non è facile accettare un certo livello, anche non elevato, di sofferenza, lo psicoterapeuta però avrà in questi casi anche il compito di “educatore speciale” per fare comprendere che questi sforzi per allontanare la sofferenza per staccarsi da una situazione conflittuale, non fanno altro che aggiungere stress allo stress, consumando letteralmente molta energia psicofisica e ostacolando una visione adeguata del problema. Paradossalmente, quindi, questi tentativi possono di per sé essere produrre ulteriore sofferenza, anche perché spesso si basano su prospettive idealizzate e irrealistiche con obiettivi di una sorta di felicità in un futuro. La mindfulness promuove al contrario esperienze di accoglimento del presente, di comprensione più ampia e delicata delle difficoltà e di tolleranza delle emozioni e delle percezioni, anche quelle negative quali esperienze da includere ed attraversare con equanimità nel proprio percorso esistenziale.
Mindfulness appresenta anche una delle metodiche della terza generazione della CBT – Cognitive Behavioral Therapy, in particolare, la terapia cognitiva basata sulla consapevolezza (MBCT).
Una gran quantità di pensieri negativi deriva dalla critica che il soggetto fa a sé stesso per il fatto di sentirsi ansioso, depresso o a disagio. Ai pensieri negativi (primari) che alimentano i disagi emotivi, si aggiungono ulteriori pensieri improduttivi (secondari) su di sé. Questo meccanismo di autoaccusa e auto-biasimo genera una spirale che dà origine alla ruminazione depressiva. La persona si pone così in una condizione di «nemica» di sé stessa, anziché di «alleata» di sé stessa. L'allenamento della consapevolezza permette di affinare l'attenzione verso questi meccanismi che deteriorano l'umore e depotenziano le capacità di ripresa psicologica o la prevenzione delle recidive depressive. I 6 processi di base dell’ACT
I sei processi psicoterapeutici fondamentali nell’Acceptance and Commitment Therapy sono rappresentate dal cosiddetto modello dell’esagono o “Exaflex. L’ACT mira perciò a raggiungere la dimensione di flessibilità psicologica agendo tramite sei processi fondamentali
Contatto con il momento presente
“Essere in contatto con il momento presente” significa essere il più possibile consapevoli di ciò che ci sta accadendo momento per momento, certo a volte è molto difficile nella quotidianità rimanere connessi al momento presente. Molte persone sono infatti a volte quasi compresse se non schiacciati dalle preoccupazioni riguardo al futuro o rimpianti nei confronti del passato.
Un percorso di psicoterapia ACT lavora invece sulla capacità di stare in contatto con il momento presente, ponendo attenzione a quello che si sta vivendo attimo dopo attimo.
Defusione
Per defusione si intende quella particolare capacità della mente, tipica degli stati di meditazione, di potersi osservare mentre sperimenta il suo stesso funzionamento. Defondersi significa fare un “passo indietro” ed osservare i propri pensieri guardandoli per quello che sono.
Uno degli strumenti usati nell’Acceptance and Commitment Therapy è proprio quello di imparare a defondersi dai propri pensieri ed emozioni negative, prendendone le distanze ma senza reprimerle, riducendo così l’impatto che queste hanno sulla nostra vita. Riuscire a prendere questa distanza aiuta a gestire meglio pensieri ed emozioni e a migliorare lo stato psicologico generale della persona.
Accettazione
Accettare significa aprirsi e fare spazio a sentimenti, emozioni e sensazioni anche dolorose. Significa smettere di combattere le emozioni negative, smettere di non volerle sentire e lasciare che semplicemente si manifestino per quello che sono. L’accettazione è uno dei processi cardine di una psicoterapia basata sull’ACT. Secondo l’ACT, infatti, la causa di gran parte della sofferenza psicologica che proviamo è legata al nostro tentativo di evitare di provarla. Nel nostro tentativo di evitare di sentire dolore e sofferenza entriamo dentro ad una trappola che alimenta, invece che diminuire, il dolore iniziale. Riprendere contatto con il dolore originario, invece, la nostra mente può trovare strade alternative e più funzionali di gestione di quel dolore.
Sé come contesto
Il sé come contesto detto anche il “sé che osserva” è quella parte delle persone che in qualche modo è consapevole delle azioni e della programmazione e attuazione delle stesse. Mentre tutti hanno consapevolezza del sé che ragiona, progetta immagina, ricorda, in qualche modo agisce, molta meno consapevolezza la si ha di un’altra parte della mente che è in grado di avere un certo livello di consapevolezza di fondo. È il sé come contesto, quella parte della mente che osserva il suo stesso funzionamento. Prendere contatto con questa parte è un passaggio fondamentale nei percorsi di psicoterapia ACT.
Valori
Per l’Acceptance and Commitment Therapy una parte fondamentale del percorso con il paziente è poi dedicata alla presa di coscienza e chiarificazione dei valori personali. Ogni persona ha infatti i propri valori, ma spesso, soprattutto quanto le persone sono molto sofferenti, si fa fatica a ricordarli o vivere in accordo con questi con sviluppo di ulteriore confusione, spaesamento come se si fosse davvero senza punti di riferimento. Parte integrante di un percorso ACT è quindi la riscoperta dei propri valori personali da parte del paziente. I valori infatti sono una sorta di mola che motiva alle azioni, ciò che può produrre un reale e sano cambiamento. Fare chiarezza sui valori personali e operare di conseguenza delle scelte orientate in base a queste idee e convinzioni valoriali, è uno degli aspetti centrali del percorso.
Azione impegnata
Ultimo ma non meno importante tra i 6 processi cardine dell’ACT e ben rappresento dal Hexaflex è l’azione impegnata. Non serve a molto, infatti, avere di nuovo chiari quelli che sono i valori della persona, prendere consapevolezza dei pensieri e essere più consapevoli e osservare i nostri processi mentali se poi non iniziamo a progettare fattivi cambiamenti nella nostra vita. L’azione impegnata, che rende la psicoterapia ACT anche profondamente pragmatica, implica proprio un deciso impegno all’azione da parte del paziente verso una vita diversa e maggiormente soddisfacente per il proprio sé, anche in prospettiva del futuro immediato. Ed è solo nel momento in cui una persona ha chiarito i suoi valori e deciso che cosa per lui sia importante, che può davvero decidersi e andare verso uno stile di vita diversa, più vicino alle proprie caratteristiche più ricco di reali soddisfazioni e gratificazioni congrue e significative per sé.
